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Il nuovo assegno di divorzio: la funzione compensativa e perequativa

  • Autore: giovedì 25 ottobre 2018 di Rimini Carlo Professore ordinario di diritto privato presso l'Università di Milano
  • 26 ott, 2018

Famiglia e successioni - Il Quotidiano giuridico

L’assegno divorzile è un istituto concepito quasi mezzo secolo fa, certamente nato come
proiezione dopo la fine del matrimonio della solidarietà coniugale, ultima eco dell’indissolubilità
del vincolo. Il fatto di avere per decenni continuato a descriverlo e ad interpretarlo su basi
esclusivamente assistenziali – come un relitto di una società e di una concezione della famiglia
che non esistono più – aveva prodotto l’effetto di renderlo del tutto inadeguato a realizzare
un’equa ridistribuzione delle risorse fra i coniugi dopo il fallimento del matrimonio. La logica
esclusivamente assistenziale portava a conclusioni ormai inaccettabili, non attribuendo
adeguato rilievo all’esigenza di riequilibrare le fortune economiche dei coniugi rispetto agli
sforzi e alle rinunce da ciascuno di essi effettuati a favore della famiglia. Le Sezioni unite
aprono in-vece una stagione nuova per l’assegno divorzile fondandolo su una funzione
preminentemente compensativa. L’intervento del legislatore – che consenta finalmente la
previsione di un assegno a termine e attribuisca al giudice la possibilità di compensare la parte
debole con una prestazione in un’unica soluzione – resta comunque indifferibile.
I fatti
La straordinaria importanza del principio di diritto affermato dalla sentenza annotata e l’ampio
dibattito che l’ha preceduta potrebbero portare a ritenere scarsamente rilevanti i fatti
caratterizzanti la vicenda specifica che ha avuto la sorte di essere rimessa alla decisione delle
Sezioni unite. Tale vicenda, tuttavia, presenta alcune caratteristiche peculiari (invero non
eccezionali) in relazione alle quali sarà interessante sperimentare l’applicazione concreta dei
nuovi principî generali definiti dalla Corte. Sarà questo ovviamente il compito del giudice del
rinvio, ma sono opportune alcune considerazioni – che svolgeremo in conclusione – sullo
specifico accertamento demandato, nel caso concreto, al giudice di merito.
I coniugi hanno contratto matrimonio nel 1978 e la loro convivenza si è protratta per ventinove
anni. Nel 2007 le parti hanno sottoscritto una separazione consensuale nella quale non era
previsto alcun assegno di mantenimento. Non è dato sapere (perché di ciò non si trova
menzione né nell’esposizione dei fatti di causa né nella sommaria esposizione dei motivi di
ricorso) se i coniugi abbiano figli. Sappiamo invece che, al momento della separazione, i
coniugi hanno fondato l’accordo su un “riequilibrio del loro patrimoni”. Sappiamo inoltre che –
(anche o esclusivamente) per effetto di tale riequilibrio – la moglie, al momento del divorzio, è
titolare di un patrimonio “molto cospicuo” e svolge un’attività lavorativa che le garantisce un
reddito “decisamente superiore alla media”. Ciononostante, vi è fra i coniugi una evidente
sperequazione delle capacità economiche e patrimoniali a favore del marito, tanto che il giudice
di primo grado reputa che la moglie non abbia redditi adeguati al mantenimento del tenore di
vita (potenziale) che era possibile mantenere durante il matrimonio e riconosce in suo favore
un assegno divorzile di € 4.000 al mese. Riformando tale decisione, la Corte d’Appello nega
alla moglie l’assegno divorzile sulla base della considerazione che la stessa ha un reddito e un
patrimonio tali da consentirle l’autosufficienza economica.
Evidentemente, i diversi risultati cui giungono le opposte decisioni dei giudici di merito sono
l’effetto concreto del contrasto giurisprudenziale che le Sezioni unite hanno composto con la
sentenza annotata, ma la sorte ha voluto che, proprio fra le pieghe fattuali della vicenda
oggetto del giudizio, si nascondesse un elemento che i precedenti e contrapposti orientamenti
svalutavano o espressamente privavano di significato, ed è invece destinato ora ad assumere
un valore significativo, se non decisivo. Torneremo su questo punto in conclusione.
Il contrasto giurisprudenziale
Solo per i lettori che hanno avuto il privilegio raro di non essere in alcun modo raggiunti
dall’assordante dibattito che si è svolto in Italia nell’ultimo anno – non solo sulle riviste
giuridiche ma anche sui quotidiani e su qualsiasi mezzo di informazione – in relazione ai
presupposti dell’assegno divorzile, riassumiamo di seguito i contorni del contrasto
giurisprudenziale relativo alla interpretazione dell’art. 5, 6° comma, della L. n. 898/1970 (così
come modificato dalla L. n. 74/1987) che ha imposto la rimessione della questione alle Sezioni
unite.
Da oltre un quarto di secolo le massime della giurisprudenza di legittimità, consolidate sino a
costituire un monolito, affermavano la natura esclusivamente assistenziale dell’assegno
divorzile[1]. La medesima giurisprudenza affermava che il giudizio relativo all’assegno di
divorzio si articola in due fasi nettamente distinte, basate su elementi di valutazione differenti: la
fase dell’an debeatur – cioè la fase di valutazione dell’esistenza in astratto del diritto – e quella
del quantum debeatur, durante la quale il giudice deve determinare il concreto ammontare del
diritto riconosciuto in astratto sussistente. Nella prima fase, il giudice – si affermava – è guidato
unicamente dal parametro della adeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente. Nella seconda
fase, se la precedente verifica ha accertato l’inadeguatezza dei redditi e l’impossibilità del
richiedente di procurarsi redditi adeguati per ragioni oggettive, il giudice deve determinare il
concreto ammontare dell’assegno sulla base dei criteri indicati nella parte centrale dell’art. 5,
6° comma, della legge sul divorzio.
La terza faccia di questo monolito giurisprudenziale era costituita dall’affermazione per cui il
parametro per valutare l’adeguatezza dei mezzi ai fini del riconoscimento in astratto del diritto
all’assegno divorzile era costituito dal tenore di vita familiare. Il raccordo fra la fase relativa
all’an e quella relativa al quantum, veniva realizzato affermando che la somma necessaria al
coniuge debole per mantenere il tenore di vita familiare è il tetto massimo che l’assegno può
raggiungere nella applicazione ponderata in concreto dei criteri indicati dal legislatore.
Come è noto, questo orientamento giurisprudenziale è stato avviato da quattro sentenze rese a
Sezioni unite nel 1990[2]. L’intervento delle Sezioni unite nasceva dalla circostanza che,
all’inizio di quello stesso anno, una sentenza di legittimità[3] (pronunciata in una delle prime
occasioni in cui la Corte ha avuto l’opportunità di soffermarsi sul testo introdotto dalla novella
del 1987) – recependo la soluzione proposta da una parte della dottrina di allora[4] e
discostandosi dall’orientamento giurisprudenziale prevalente – aveva affermato che il
parametro per valutare l’adeguatezza dei mezzi del coniuge che chiede il riconoscimento
dell’assegno divorzile doveva essere individuato in ciò che è necessario per mantenere un
“modello di vita economicamente autonomo e dignitoso”.
Nel 1990, dunque, le Sezioni unite elaborarono un primo intelligente compromesso fra le due
opposte tensioni che ciclicamente si sono riproposte nel diritto della crisi della famiglia: la tesi
per cui il tenore di vita matrimoniale determina la misura dei diritti della parte debole dopo il
fallimento del matrimonio e la tesi per cui, dopo lo scioglimento del vincolo matrimoniale, i
vincoli assistenziali si attenuano e la parte economicamente più forte è tenuta solo a garantire
la dignità della vita della parte debole. Il compromesso fu trovato nell’affermare che il tenore di
vita matrimoniale è il riferimento per individuare il tetto massimo dell’assegno che, nella sua
concreta determinazione, è però affidato ad altri parametri fra i quali (già allora) veniva posto in
evidenza il contributo dato da ciascun coniuge alle esigenze della famiglia.
Oggi – nel momento in cui questo impianto ermeneutico viene dopo tanti anni superato con la
sentenza annotata – non possiamo non ricordare che esso fu elaborato da Giovanni Gabrielli
[5] che, nei mesi immediatamente precedenti alla decisione a Sezioni unite del 1990 e nel corso
del dibattito di allora (ricchissimo di interventi come è stato il dibattito che ha preceduto la
sentenza annotata), indicò la strada: è il tenore di vita matrimoniale il parametro
dell’adeguatezza dei mezzi per riconoscere l’assegno divorzile, come lo è per riconoscere
l’assegno di mantenimento durante la separazione, “con questa differenza, tuttavia, fra la
disciplina della separazione e del divorzio: che, nella prima, il riferimento al tenore di vita
matrimoniale è inderogabile in favore del coniuge cui la separazione stessa non possa
addebitarsi; mentre nella seconda la discrezionalità giudiziale può spaziare, nel disporre
l’assegno, fra un massimo rappresentato dal tenore di vita matrimoniale e un minimo costituito
dagli alimenti, in considerazione di una pluralità di elementi indicati nella norma”[6].
La proposta di Gabrielli fu seguita dalla Sezioni unite del 1990 e la tesi per cui il tenore di vita
matrimoniale – già criterio per il riconoscimento e la determinazione dell’assegno di
mantenimento al momento della separazione – doveva essere considerato il parametro per la
valutazione in astratto della sussistenza del diritto all’assegno divorzile, mentre costituiva solo il
tetto massimo per la sua concreta determinazione, ha retto per un quarto di secolo, fino a che
l’evoluzione della nostra società – in relazione all’organizzazione della vita familiare e al
significato che hanno oggi i vincoli familiari – ha imposto un ripensamento. La pagina della
Rivista di diritto civile su cui sono scritte le poche righe sopra riportate resta tuttavia un
capolavoro per la civilistica italiana: probabilmente non è mai successo che una singola tesi,
espressa con poche e chiare parole, abbia influenzato un numero tanto elevato di decisioni
giurisprudenziali per un tempo così prolungato.
Nell’esporre i momenti principali delle vicende storiche relative all’assegno divorzile prima della
sentenza annotata, non possiamo non ricordare che l’impianto ermeneutico costruito dalle
Sezioni unite del 1990 era stato integralmente recepito anche dalla Corte costituzionale[7], con
un intervento scaturito da una ordinanza di rimessione del Tribunale di Firenze[8]. Questo
giudice di merito aveva sollevato una questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 della L. n.
898/1970 così come plasmato dal “diritto vivente”. Tale norma – secondo il Tribunale fiorentino
– sarebbe in contrasto con la Costituzione poiché, in modo irragionevole e contraddittorio,
prolungherebbe oltre il matrimonio l’obbligo di assistenza reciproca fra i coniugi, rendendo
eccessiva la tutela del coniuge economicamente più debole.
La Corte costituzionale, come era facile prevedere[9], ha liquidato la questione in poche righe
dichiarandola infondata. Tuttavia, l’ordinanza di rimessione fiorentina può essere oggi ricordata
come il primo segno di insofferenza, quasi di ribellione, in una giurisprudenza di merito e di
legittimità che per anni, almeno formalmente[10], ha mostrato invece una compattezza
assoluta.
Una ben più profonda frattura nell’orientamento giurisprudenziale sino ad allora unitario si è
prodotta con la sentenza della Cassazione n. 11504 del 2017[11]. Si è trattato di un vero e
proprio terremoto[12].
In realtà la sentenza del 2017 confermava due dei tre pilastri dell’impianto ermeneutico
elaborato dalle Sezioni unite nel 1990. In particolare, veniva ribadita con forza la natura
esclusivamente assistenziale dell’assegno divorzile – affermando che la sua ratio ha un
fondamento costituzionale nel dovere inderogabile di solidarietà economica – e veniva
confermata la natura bifasica dell’accertamento.
Il contrasto rispetto alla giurisprudenza precedente riguardava quindi unicamente il parametro
attraverso cui valutare l’adeguatezza dei mezzi nella fase dell’an debeatur. In relazione a
questo problema, la sentenza del maggio 2017 affermava espressamente di volersi discostare
dall’interpretazione sostenuta dalle Sezioni unite del 1990, abbandonando il criterio del tenore
di vita coniugale per sostituirlo con quello del “raggiungimento dell’indipendenza economica del
richiedente”. La Corte precisava che “se è accertato che quest’ultimo [il coniuge richiedente
l’assegno di divorzio] è ‘economicamente indipendente’ o è effettivamente in grado di esserlo,
non deve essergli riconosciuto il relativo diritto”.
Il concetto di autosufficienza e indipendenza economica, utilizzato dalla sentenza n.
11504/2017 come parametro dell’adeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, non dipende
dalle sostanze dell’altro coniuge e dalla condizione economica che avevano i coniugi durante il
matrimonio. La Cassazione, infatti, affermava espressamente che l’indipendenza economica
“attiene esclusivamente alla persona dell’ex coniuge richiedente l’assegno come singolo
individuo, cioè senza alcun riferimento al preesistente rapporto matrimoniale”[13].
Veniva quindi sostanzialmente riproposto il medesimo orientamento seguito nella sentenza del
marzo 1990[14] che aveva preceduto l’intervento delle Sezioni unite di quello stesso anno.
Allora si condizionava il riconoscimento dell’assegno divorzile all’accertamento che il coniuge
richiedente non disponesse di un reddito tale da consentirgli una “esistenza libera e dignitosa”;
la sentenza del 2017, per parte sua, condizionava la sussistenza del diritto all’assegno
all’accertamento che egli non fosse “economicamente indipendente”, sulla base di una
valutazione “effettuata senza alcun riferimento al preesistente vincolo matrimoniale”. Poco più
di una variazione lessicale[15].
Nel corso del 2017 e durante i primi mesi del 2018, la Prima Sezione della Cassazione ha più
volte ribadito il proprio orientamento, riaffermando con forza la necessità di una rigida
distinzione fra la fase relativa all’an e quella relativa al quantum[16] ma finendo per proporre
una rilettura più flessibile del criterio dell’autosufficienza economica. La Corte di legittimità ha
infatti affermato la necessità di adeguare il parametro dell’autosufficienza alle caratteristiche
soggettive del coniuge richiedente l’assegno, alla sua “specifica individualità”[17], al “contesto
sociale in cui è inserito”[18].
Questa lettura più mite del criterio dell’autosufficienza economica era stata anticipata da una
sentenza della Corte d’Appello di Milano[19]. Altra parte della giurisprudenza di merito aveva
invece espressamente disatteso l’insegnamento della sentenza di legittimità n. 11504/2017.
In particolare, si segnala una sentenza del Tribunale di Udine, che ribadendo la necessità di
valutare l’adeguatezza dei mezzi alla luce del pregresso tenore di vita familiare, ha avuto per
prima il “coraggio” di infrangere il dogma della separazione fra il giudizio sull’an e quello sul
quantum[20].
Questo stesso orientamento è stato successivamente seguito in un’altra sentenza dissenziente,
pronunciata dalla Corte d’Appello di Napoli[21] che, con una motivazione particolarmente ampia
e meditata, ha invece demolito un altro dogma della giurisprudenza consolidata: quello della
natura esclusivamente assistenziale dell’assegno. I giudici della Corte napoletana affermano
che, accanto alla funzione assistenziale, deve essere riconosciuta quella compensativa
dell’assegno per attribuire rilievo al contributo concreto che il coniuge richiedente ha apportato
alla vita familiare.
Dalle reazioni di una piccola, ma attenta e combattiva, parte della giurisprudenza di merito si
ricava la conclusione che il revirement del 2017 – come un temporale dopo un lungo periodo di
afa – ha costituito un punto di rottura e, anche laddove non ha convinto, ha aperto la strada ad
idee nuove che si sono dimostrate assai feconde.
La sentenza del 2017, peraltro, ha prodotto anche un vivace dibattito dottrinale[22]. Volendo
tentare una sintesi dei suoi esiti, possiamo affermare che la maggior parte dei commentatori ha
visto con favore il superamento del tenore di vita familiare come criterio indiscriminato per la
valutazione dell’adeguatezza dei redditi del coniuge richiedente l’assegno[23] ma, al contempo,
da più parti, si è evidenziato come il nuovo orientamento rischiasse di comprimere oltre ogni
ragionevolezza i diritti del coniuge che, durante il matrimonio, ha sacrificato le proprie
aspirazioni lavorative e professionali per dedicarsi esclusivamente o prevalentemente alle
esigenze della famiglia[24]. Peraltro, assai frequente è stata l’invocazione dell’intervento delle
Sezioni unite[25].
La soluzione adottata dalle Sezioni unite
Il contrasto nella giurisprudenza di legittimità che si era aperto dopo la sentenza n. 11504/2017
riguardava quindi solo la nozione di “mezzi adeguati” che si legge nell’ultima parte dell’art. 5, 6°
comma, L. n. 898/1970. Posto che l’adeguatezza è un concetto relativo, la giurisprudenza
tradizionale, successiva alle Sezioni unite del 1990, individuava il parametro dell’adeguatezza in
ciò che è necessario per mantenere il tenore di vita coniugale, mentre la nuova impostazione lo
fissava in ciò che è necessario per garantire l’autosufficienza economica ovvero per
un’esistenza libera e dignitosa. Entrambi gli orientamenti erano tuttavia coesi nelle seguenti
affermazioni:
i) il parametro dell’adeguatezza va ritrovato fuori dalla cornice normativa dell’art. 5, 6° comma,
L. n. 898/1970;
ii) l’assegno divorzile ha natura esclusivamente assistenziale;
iii) il procedimento logico che il giudice deve seguire è rigidamente bifasico: la fase dell’an e la
fase del quantum.
Le Sezioni unite, con la sentenza in commento, individuano una soluzione alternativa rispetto
alle due proposte ermeneutiche contrapposte, soluzione che passa attraverso la totale
confutazione dei tre pilastri sopra menzionati sui quali invece vi era in precedenza assoluta
condivisione.
i) “Il giudice dispone sull’assegno di divorzio in relazione all’inadeguatezza dei mezzi ma questa
valutazione avviene tenuto conto dei fattori indicati nella prima parte della norma”[26].
La sentenza annotata fonda il proprio percorso argomentativo sulla considerazione per cui l’art.
5, 6° comma, L. n. 898/1970 è una norma autosufficiente nel senso che fornisce all’interprete
tutti i parametri necessari alla sua applicazione concreta, cosicché qualsiasi operazione
ermeneutica fondata su criteri individuati all’esterno della norma (sia il tenore di vita
matrimoniale, sia l’autosufficienza economica) è errata.
Chi scrive ha già avuto modo, su queste stesse colonne[27], di illustrare le ragioni che
sorreggono questa sorta di “rivoluzione copernicana”, che pone al centro del giudizio di
adeguatezza non un fattore di valutazione estraneo alla norma oggetto di interpretazione, ma i
criteri di cui – nella norma stessa – il legislatore impone di “tenere conto”.
Poiché fra i fattori che – secondo questa lettura – devono essere considerati nel giudizio di
adeguatezza, vi sono il contributo dato da ciascun coniuge alle esigenze familiari e la durata
del matrimonio, questa nuova impostazione ottiene l’effetto di adeguare l’istituto dell’assegno
divorzile all’evoluzione della società contemporanea: non una rendita assistenziale,
ingiustificata proiezione dopo lo scioglimento del matrimonio dei vincoli solidaristici che lo
caratterizzano, ma una equa compensazione dei sacrifici fatti da ciascuno durante la
convivenza a favore delle esigenze familiari. Il risultato si ottiene senza attendere una riforma
legislativa, riforma che sarebbe comunque auspicabile[28] per le ragioni che in seguito
illustreremo.
ii) All’assegno di divorzio “deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura
compensativa e perequativa”. La norma “conferisce rilievo alle scelte e ai ruoli sulla base dei
quali si è impostata la relazione coniugale e la vita familiare”.
L’auspicio – formulato su queste stesse colonne[29] – che le Sezioni unite potessero aprire
una nuova stagione rivalutando la finalità compensativa dell’assegno divorzile, è stato quindi
pienamente attuato.
L’assegno divorzile è un istituto concepito quasi mezzo secolo fa, certamente nato come
proiezione dopo la fine del matrimonio della solidarietà coniugale, ultima eco dell’indissolubilità
del vincolo. Il fatto di avere continuato per decenni a descriverlo e ad interpretarlo su basi
esclusivamente assistenziali – come un relitto di una società e di una concezione della famiglia
che non esistono più – aveva prodotto l’effetto di renderlo del tutto inadeguato a realizzare
un’equa ridistribuzione delle risorse fra i coniugi dopo il fallimento del matrimonio. Per questa
ragione, da tempo si era diffusa fra gli stessi coniugi, al momento del divorzio, una radicata e
profonda insoddisfazione nei confronti dell’istituto dell’assegno divorzile, del suo fondamento e
degli esiti pratici della sua applicazione. È significativo osservare che questa insoddisfazione,
quasi una sorda ostilità, fosse comune – ovviamente da prospettive opposte – tanto alla parte
debole che rivendica l’assegno, quanto alla parte forte chiamata a versarlo.
La logica esclusivamente assistenziale – interpretata nel senso di giustificare che l’ex coniuge
più debole avesse il diritto di mantenere a tempo indeterminato il tenore di vita coniugale –
portava dunque a conclusioni ormai non più accettate[30]. Tuttavia, l’aspetto per cui
l’orientamento giurisprudenziale sino a ieri consolidato (su questo punto ribadito anche dalle
sentenze successive al revirement del 2017) appariva più distante dalla coscienza comune
contemporanea era il fatto di non dare adeguato rilievo – per l’ossessione di far sopravvivere
un vincolo esclusivamente assistenziale per un tempo indefinito dopo il divorzio – all’esigenza di
riequilibrare le fortune economiche dei coniugi rispetto agli sforzi e alle rinunce da ciascuno di
essi effettuati a favore della famiglia.
La svolta impressa dalla sentenza annotata è quindi pienamente condivisibile ponendosi nel
solco da tempo tracciato da una parte della dottrina[31] che ha affermato la necessità di
enfatizzare le esigenze compensative nel riconoscimento dell’assegno divorzile. Generalmente
il coniuge più debole, al momento dello scioglimento del matrimonio, non cerca affatto
assistenza – e considera anzi offensiva per la propria dignità la sola idea di riceverla – ma
pretende una giusta ricompensa per i sacrifici spesso assai rilevanti compiuti durante il
matrimonio a favore della famiglia. La funzione esclusivamente assistenziale dell’assegno
frustrava tali aspettative.
La discrasia che esisteva fra il fondamento – etico, prima ancora che giuridico – che il coniuge
debole pone alla base dei propri diritti e la natura esclusivamente assistenziale assegnata
all’assegno divorzile prima della sentenza annotata era una pessima premessa per una
soluzione equilibrata e soddisfacente del conflitto post-coniugale[32]. Finalmente questa
frattura può dirsi oggi ricomposta.
La sentenza annotata contempera la finalità assistenziale e la finalità compensativa, nel senso
che entrambe le funzioni sono fuse all’interno del parametro dell’adeguatezza: “la funzione
assistenziale dell’assegno di divorzio si compone di un contenuto perequativo-compensativo
che discende direttamente dalla declinazione costituzionale del principio di solidarietà e che
conduce al riconoscimento di un contributo che, partendo dalla comparazione delle condizioni
economico-patrimoniali dei due coniugi, deve tener conto non soltanto del raggiungimento di
un grado di autonomia economica tale da garantire l’autosufficienza, secondo un parametro
astratto ma, in concreto, di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella
realizzazione della vita familiare”.
È evidente quindi, da un lato, che nella nuova funzione composita dell’assegno divorzile la
funzione di compensazione dei sacrifici fatti è assolutamente prevalente[33]. D’altro lato,
invece, la funzione risarcitoria-indennitaria collegata al criterio delle ragioni della decisione
sfuma in una posizione di assoluta marginalità. Esso è infatti menzionato solo incidentalmente
nella ampia motivazione della sentenza annotata che, nel tracciare un quadro comparatistico,
non perde occasione per ricordare la “tendenziale eliminazione del divorzio per colpa che,
all’interno del nostro ordinamento trova riscontro nella progressiva riduzione dell’importanza del
c.d. criterio risarcitorio fin dall’accertamento dell’addebito in sede di separazione”.
iii) “[La] Corte ritiene di dover abbandonare la rigida distinzione fra criteri attributivi e
determinativi dell’assegno di divorzio”.
La distinzione fra il criterio per il riconoscimento in astratto dell’assegno (“quando quest’ultimo
non ha mezzi adeguati...”) e i criteri per la sua concreta determinazione (“tenuto conto delle
condizioni dei coniugi... in rapporto alla durata del matrimonio”) aveva senso nell’architettura
ermeneutica disegnata dalle sentenze delle Sezioni unite nel 1990 nelle quali il parametro per
la valutazione dell’an dell’assegno era contemporaneamente il “tetto massimo” nella fase della
determinazione del quantum.
La sentenza n. 11504/2017 aveva cercato di difendere la tradizionale distinzione, senza però
chiarire se veniva confermato anche che il parametro relativo all’an indica il tetto massimo nella
fase della concreta determinazione dell’assegno. Tale equivoco nasceva probabilmente dalla
consapevolezza che sia la risposta affermativa sia quella negativa portavano a conseguenze
inaccettabili: quella affermativa condannava i criteri di determinazione alla sostanziale inutilità
[34]; quella negativa portava a conseguenze del tutto inique[35].
Le Sezioni unite hanno spazzato via questo problema affermando che la valutazione del giudice
è necessariamente unitaria: una conclusione che è il logico e coerente corollario
dell’affermazione per cui il concetto di adeguatezza va valutato alla luce dei criteri indicati
nell’inciso centrale dell’art. 5, 6° comma, L. n. 898/1970.
La distribuzione dell’onere della prova
La sentenza annotata disegna il percorso che il giudice deve seguire nel riconoscimento e
nella determinazione dell’assegno divorzile. Deve, in primo luogo, valutare se vi sia, dopo il
divorzio e in conseguenza di esso, uno squilibrio nelle condizioni economico-patrimoniali delle
parti. Se la risposta è negativa, la domanda di assegno deve essere rigettata perché la
componente assistenziale nella funzione dell’istituto impedisce di dare spazio ad esigenze
compensative che potrebbero eventualmente essere presenti anche a fronte di situazioni
economiche dei due ex coniugi equivalenti.
Se invece lo squilibrio sussiste, e non può essere colmato per ragioni oggettive, il giudice deve
allora valutare se esso “derivi dal sacrificio di aspettative professionali e reddituali fondate
sull’assunzione di un ruolo consumato esclusivamente o prevalentemente all’interno della
famiglia e dal conseguente contributo fattivo alla formazione del patrimonio comune e a quello
dell’altro coniuge”.
Ma come è distribuito l’onere della prova relativo a questi due fondamentali accertamenti?
L’accertamento dello squilibrio economico-patrimoniale
Il giudice deve avere, prima di ogni altra considerazione, il quadro della situazione reddituale e
patrimoniale di entrambe le parti. Tale accertamento è sottratto all’applicazione delle normali
regole di distribuzione dell’onere della prova. Esso invece viene effettuato sia tramite la
produzione dei documenti fiscali, sia tramite il “potenziamento dei poteri istruttori officiosi
attribuiti al giudice”. Quindi, la prova della sussistenza dello squilibrio non è un onere della
parte che chiede l’assegno.
L’enfasi che la sentenza annotata pone sui poteri istruttori officiosi del giudice e sul loro
potenziamento forse apre finalmente la strada alla definitiva affermazione di un istituto
comunemente accettato e diffuso nella maggior parte degli ordinamenti con cui siamo abituati a
confrontarci per livello di civiltà: la disclosure. È finalmente arrivato il momento che si diffonda
la prassi di ordinare alle parti non solo l’esibizione delle dichiarazioni fiscali, ma anche la
produzione di una dichiarazione sulla consistenza del proprio patrimonio e dei propri redditi
(non solo quelli menzionati nella dichiarazione presentata all’Agenzia delle Entrate, ma anche
quelli che – anche del tutto legittimamente – non sono menzionati per le più varie ragioni nel
rigo RN1 della dichiarazione dei redditi delle persone fisiche)[36].
Le dichiarazioni rese spontaneamente dalle parti, in caso di contestazione, potranno essere
oggetto di verifica sia con lo strumento previsto dall’art. 5, 9° comma, L. n. 898/1970 e quindi
disponendo indagini compiute dalla polizia tributaria, sia tramite l’accesso all’anagrafe tributaria
– e, in particolare, all’archivio dei rapporti finanziari – secondo quanto espressamente previsto
dal D.L. n. 132/2014[37].
La prova del nesso causale fra lo squilibrio economico-patrimoniale e i sacrifici
compiuti da un coniuge a favore della famiglia
L’esistenza di un sacrificio a favore delle esigenze della famiglia da parte del coniuge che
chiede l’assegno è invece un fatto il cui accertamento è sottratto ai poteri officiosi del giudice. È
quindi la parte che chiede l’assegno che deve, in primo luogo, dare la prova dei sacrifici fatti
durante il matrimonio a favore della famiglia e del proprio contributo alla formazione del
patrimonio comune e di ciascuno. La prova può essere fornita “con ogni mezzo anche
mediante presunzioni”.
In secondo luogo, deve esservi la prova di un nesso causale fra i sacrifici fatti (e provati) e lo
squilibrio fra le situazioni reddituali e patrimoniali dei due coniugi nel senso che, se il coniuge
richiedente non si fosse sacrificato a favore della famiglia, lo squilibrio non si sarebbe prodotto.
La sentenza annotata precisa che il convincimento del giudice in relazione al nesso eziologico
fra i sacrifici effettuati a favore della famiglia dal coniuge richiedente e la sperequazione che si
è determinata fra le situazioni reddituali e patrimoniali dei coniugi deve essere frutto di un
“accertamento probatorio rigoroso”. Secondo le ordinarie regole di distribuzione dell’onere
della prova, è onere della parte che propone la domanda la prova rigorosa dell’esistenza del
nesso causale.
I limiti entro cui è contenuta la discrezionalità del giudice nella determinazione in
concreto dell’assegno di divorzio
Prima della riforma del 1987, quando pure – come nella sentenza annotata – si affermava la
funzione composita dell’assegno di divorzio, era diffusa l’opinione per cui la molteplicità di
funzioni comportava un eccesso di discrezionalità del giudice. Proprio da questi rilievi nacque la
riformulazione, ad opera della L. n. 74/1987, dell’art. 5, 6° comma, L. n. 898/1970.
È quindi giusto chiedersi se l’avere riaffermato la funzione composita dell’assegno possa
riprodurre il rischio di una eccessiva discrezionalità.
Chi scrive è convinto che tale rischio non vi sia, essendo la discrezionalità del giudice ben
contenuta entro i limiti che la sentenza in commento chiaramente pone ed essendo essa
guidata da un criterio forte e finalmente condiviso nella società contemporanea quale quello
del riconoscimento dei sacrifici fatti durante il matrimonio.
La sentenza annotata è chiara nell’affermare che il criterio del tenore di vita matrimoniale non
ha più alcun rilievo nella concreta determinazione dell’assegno divorzile. Il tetto massimo nella
determinazione dell’assegno è quindi costituito dalla somma necessaria e sufficiente per
colmare lo squilibrio fra le posizioni economico-patrimoniali dei coniugi. Si tratta quindi della
somma che consente ad entrambi i coniugi di vivere allo stesso modo, senza che la parte
debole sia costretta a limitazioni a cui l’altra non deve invece piegarsi. A questa soglia massima
il giudice dovrà giungere solo se i sacrifici della parte debole a favore della famiglia – che
hanno prodotto lo squilibrio delle rispettive posizioni economiche – siano stati molto rilevanti,
abbiano contribuito in modo decisivo alla formazione della posizione reddituale e patrimoniale
della parte forte e si siano protratti per un tempo molto prolungato. Questo è il caso del
coniuge che ha dedicato quasi integralmente la propria vita alla famiglia e alle esigenze
dell’altro coniuge, permettendo a quest’ultimo di dedicarsi integralmente alla propria carriera.
La durata nel tempo di sacrifici rilevanti e la loro massima efficienza causale sulle fortune
economiche dell’altra parte sono elementi che dimostrano l’affidamento che la parte debole ha
posto nel matrimonio e nella sua efficacia ridistributiva delle risorse. In tale situazione limite,
l’affidamento va tutelato di fronte allo scioglimento del vincolo e il riequilibrio delle situazioni
economiche degli ex coniugi deve essere totale.
All’estremo opposto vi sono quelle situazioni in cui il coniuge debole non ha fornito alcun
contributo alle esigenze della famiglia e non ha sacrificato alcuna delle sue prospettive
professionali. Ciononostante, per le diverse condizioni di partenza, o per i casi della vita, si
trova al momento del divorzio in una situazione economica deteriore rispetto all’altro.
In tali ipotesi opera solo la funzione assistenziale-alimentare in senso stretto dell’assegno, con
la conseguenza che esso deve obbligatoriamente essere contenuto nella somma necessaria
per un’esistenza dignitosa. Peraltro, anche in questi casi, la durata del matrimonio assume un
valore predominante per cui, se all’inesistente contributo alle esigenze della famiglia si associa
un matrimonio particolarmente breve, l’assegno non può superare ciò che è necessario per
colmare lo stato di bisogno.
La discrezionalità del giudice opera, quindi, nelle situazioni intermedie nelle quali vi sia stato un
sacrificio a favore delle esigenze della famiglia, ma questo non sia stato integrale o sia
contenuto in un tempo piuttosto limitato. In questi casi l’assegno potrà essere fissato in una
misura superiore a quanto necessario per condurre un’esistenza dignitosa anche se inferiore a
quanto necessario per consentire ad entrambi i coniugi di vivere allo stesso modo. La sentenza
annotata, peraltro, indica un ulteriore criterio quantitativo di cui il giudice potrà tenere conto
proprio in queste ipotesi: l’assegno dovrà consentire alla parte debole un livello reddituale
adeguato al contributo effettivo “in particolare tenendo conto delle aspettative professionali ed
economiche eventualmente sacrificate”. Il giudice potrà quindi effettuare una valutazione
ipotetica della differenza fra i redditi che la parte debole avrebbe potuto conseguire se non
avesse effettuato i sacrifici a favore della famiglia e i redditi che invece effettivamente
percepisce a seguito di quei sacrifici.
Vi è, infine, un altro elemento che è opportuno tenere in considerazione, l’unico che la
sentenza annotata non valorizza espressamente. Si tratta del contributo dato dal coniuge più
forte alla formazione del patrimonio di cui, al momento del divorzio, il coniuge debole è titolare.
Tale patrimonio è rilevante non solo perché di esso il giudice deve tenere conto nella
valutazione delle sostanze della parte debole, ma anche perché – sia se è stato acquistato
sulla base delle regole della comunione dei beni sia se è il frutto di spontanee attribuzioni a
favore del coniuge debole effettuate durante il matrimonio dal coniuge più forte – costituisce
una forma di compensazione per i sacrifici fatti durante il matrimonio. Ciò significa che
l’assegno divorzile, determinato sulla base della sua funzione compensativa e perequativa,
deve tenere conto, come fattore di moderazione, delle attribuzioni compensative già effettuate
prima della crisi matrimoniale.
La persistente necessità di una riforma legislativa
Chi scrive ritiene che l’insegnamento reso dalle Sezioni unite con la sentenza annotata
costituisca il massimo sforzo ermeneutico possibile per armonizzare l’istituto dell’assegno
divorzile con il comune sentire e con la percezione dei legami familiari nella società
contemporanea. Si tratta, tuttavia, di un istituto nato quasi mezzo secolo addietro e appena
ritoccato trenta anni fa. Un istituto concepito all’ombra del compromesso fra il divorzio, che
veniva proprio allora introdotto, e la reazione alla sua introduzione. Esso quindi porta con sé, in
modo indelebile, il sapore della sua originaria funzione di garantire una forma di ultrattività del
matrimonio a tempo indeterminato.
La sentenza annotata compie ogni sforzo possibile per cancellare le tracce della originaria
vocazione dell’assegno di divorzio ad introdurre una criptoindissolubilità del matrimonio. Lo
sforzo però non può raggiungere il risultato in modo pieno. Ciò emerge con ogni evidenza
laddove si confronta il nostro ordinamento con quelli che ci sono vicini e che da più tempo sono
abituati a considerare il matrimonio come un vincolo suscettibile di scioglimento.
Il confronto[38] dimostra in modo evidente quanto sia urgente una riforma legislativa e ciò
almeno sotto due profili.
In primo luogo, la mancata previsione della possibilità di riconoscere a favore dell’ex coniuge
più debole un assegno a termine, finalizzato a lasciargli un tempo determinato per il
reinserimento nel mondo del lavoro. La sentenza annotata afferma che tale lacuna trova un
correttivo nella possibilità di chiedere la revisione della sentenza di divorzio e l’eliminazione o la
riduzione dell’assegno originariamente riconosciuto. Si tratta tuttavia di un correttivo assai
debole.
In secondo luogo, e soprattutto, manca nella legge italiana la possibilità di riconoscere a favore
del coniuge che deve essere compensato per i sacrifici fatti durante il matrimonio una somma
capitale in luogo di un assegno periodico. L’art. 5, 8° comma, L. n. 898/1970 prevede solo la
possibilità che il giudice valuti equo l’accordo per una definizione in un’unica soluzione
raggiunto fra le parti. Deve invece essere riconosciuta al giudice la possibilità di sostituire
l’assegno periodico, in ogni caso in cui questa strada risulti praticabile, con una prestazione in
un’unica soluzione che, lungi dal costituire un prolungamento del vincolo coniugale, realizza
invece le finalità compensative con un clean break[39].
La soluzione del caso concreto sottoposto all’esame delle Sezioni unite
La sentenza annotata – verificato che il giudice di merito si era limitato ad accertare
l’autosufficienza del coniuge richiedente, negando il diritto all’assegno nonostante l’esistenza di
uno squilibrio economico-patrimoniale fra le parti – ha accolto il ricorso. Il giudice del rinvio
dovrà quindi accertare se lo squilibrio fra la situazione economica dei coniugi è causalmente
riconducibile ai sacrifici fatti dal coniuge debole durante il matrimonio a favore della famiglia.
Come accennavamo all’inizio, vi è tuttavia una peculiarità nella vicenda sottoposta
all’attenzione delle Sezioni unite che merita qualche considerazione. I coniugi hanno, infatti,
sottoscritto una separazione consensuale nella quale hanno realizzato un “riequilibrio del loro
patrimonio”. Il coniuge debole ha quindi ottenuto, già al momento della separazione, un capitale
che costituisce certamente una prima compensazione dei sacrifici fatti durante il matrimonio. Di
questa già avvenuta compensazione il giudice deve tenere conto – come si è detto nel
paragrafo precedente – nella valutazione sul riconoscimento e la determinazione dell’assegno
divorzile.
Inoltre, nella stessa separazione consensuale non era previsto alcun assegno di mantenimento
a favore della parte debole. Spetterà al giudice del rinvio valutare se questa circostanza
significa che le parti hanno liberamente concordato che il riequilibrio patrimoniale pattuito
costituisce di per sé un’equa compensazione dei sacrifici fatti durante il matrimonio.
Sotto questo profilo vi è una affermazione nella sentenza annotata che potrebbe aprire nuovi
spiragli in relazione ad un tema che da anni è al centro dell’interesse della dottrina: quello della
disponibilità dell’assegno divorzile. In un inciso, quasi casuale – laddove la sentenza annotata
si riferisce ai poteri istruttori officiosi del giudice nell’accertamento della situazione economicopatrimoniale
delle parti – si afferma “la natura prevalentemente disponibile dei diritti in gioco”.
L’approfondimento di questo tema travalica i limiti di queste note, ma è immediato rilevare che
tale affermazione è strettamente correlata con la nuova funzione prevalentemente
compensativa dell’assegno divorzile.
Da questo punto di vista, si può cogliere una funzione causale transattiva che lega le due parti
di una separazione consensuale nella quale, da un lato, viene effettuato un riequilibrio
patrimoniale e, d’altro lato, non viene previsto un assegno a favore del coniuge debole
nonostante un persistente squilibrio reddituale. Se così è – e sarà il giudice del rinvio ad
accertarlo – la “natura disponibile dei diritti in gioco” dovrebbe portare a ritenere, almeno sotto
il profilo compensativo, pianamente valida la rinuncia all’assegno periodico in cui il negozio
relativo agli aspetti patrimoniali della crisi familiare si sostanzia.


[1] Per tutte, in una giurisprudenza sconfinata, si veda Cass., 17 maggio 2005, n. 10344, in
Fam. e Dir., 2006, 179, con nota di Lai.
[2] Cass., Sez. un., 29 novembre 1990, nn. 11489, 11490, 11491, 11492, in Foro It., 1991, I,
67, con note di Quadri e di Carbone; in Giust. Civ., 1990, I, 2789 e 1991, I, 1223 con nota di
Spadafora; in Nuova Giur. Comm., 1991, I, 112 con nota di Quadri; in Giur. It., 1991, I, 1, 536
con nota di Pellegrini; in Corriere Giur., 1991, 305 con nota di Ceccherini. L’insegnamento
delle Sezioni unite è stato successivamente costantemente seguito nella giurisprudenza di
legittimità. Senza alcuna pretesa di completezza ricordiamo: Cass., 12 ottobre 2014, n. 21597,
in Fam. e Dir., 2014, 1136; Cass., 3 luglio 2013, n. 16597, in Fam. e Dir., 2013, 1079, con nota
di Alcaro; Cass., 30 marzo 2012, n. 5177, in Guida Dir., 2012, 25, 65; Cass., 27 dicembre
2011, n. 28892, in Fam. e Dir., 2012, 304; Cass., 24 marzo 2010, n. 7145, in Fam. e Dir., 2010,
606 e in Fam. Pers. e Succ., 2010, 832, con nota di Zauli; Cass., 12 luglio 2007, n. 15611, in
Fam. e Dir., 2007, 1092; Cass., 2 luglio 2007, n. 14965, in Guida Dir., 2007, 38, 54; Cass., 12
febbraio 2003, n. 2076, in Fam. e Dir., 2003, 344.
[3] Cass., 2 marzo 1990, n. 1652, in Dir. Famiglia, 1990, 437. Questa sentenza fu peraltro
immediatamente ed aspramente criticata dalla dottrina più autorevole: C.M. Bianca, L’assegno
di divorzio in una recente sentenza della Cassazione, in Riv. Dir. Civ., 100, II, 537 e segg.
[4] Cfr. Bin, I rapporti di famiglia. Sentenze d’un anno, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1989, 325;
Luminoso, La riforma del divorzio: profili di diritto sostanziale (prime riflessioni sulla legge 6
marzo 1987, n. 74), in Dir. Famiglia, 1988, 455; Macario, in Nuove norme sulla disciplina dei
casi di scioglimento del matrimonio a cura di Lipari, Padova, 1988, sub art. 10, 103; Barbiera, Il
divorzio dopo la seconda riforma, Bologna, 1988, 97; Spadafora, Il presupposto fondamentale
per l’attribuzione dell’assegno divorzile nell’ottica assistenzialistica della riforma del 1987, in
Giust. Civ., 1990, I, 2390.
[5] G. Gabrielli, L’assegno di divorzio in una recente sentenza della Cassazione, in Riv. Dir.
Civ., 1990, II, 543.
[6] G. Gabrielli, op. cit.
[7] Corte cost., 11 febbraio 2015, n. 11, in Fam e Dir., 2015, 537 con nota di Al Mureden.
[8] Trib. Firenze, 22 marzo 2014, in Fam. e Dir., 2014, 687, con nota di Al Mureden e di
Morrone.
[9] Al Mureden, Il parametro del tenore di vita coniugale nel “diritto vivente” in materia di
assegno divorzile tra persistente validità, dubbi di legittimità costituzionale ed esigenze di
revisione, in Fam. e dir., 2014, 702 aveva, infatti, subito sottolineato come le argomentazioni
poste alla base della questione di legittimità costituzionale non potessero verosimilmente
portare ad una pronuncia di incostituzionalità, pur meritando considerazione come spunto per
un dibattito sulle funzioni dell’assegno divorzile. Nello stesso senso Sesta, Negoziazione
assistita e obblighi di mantenimento nella crisi della coppia, in Fam. e Dir., 2015, 303.
[10] Tuttavia, nella prassi quotidiana dei giudici di merito (o almeno di una parte consistente di
essi) l’assegno divorzile, proprio alla lue della sua esclusiva funzione assistenziale, era
considerato come una rendita parassitaria, ingiustificata proiezione di un rapporto matrimoniale
ormai estinto. Il parametro del tenore di vita matrimoniale, anche se formalmente considerato e
sempre menzionato, era già da anni generalmente trascurato nella concreta determinazione
dell’assegno. Nonostante il formale ossequio alla giurisprudenza di legittimità consolidata dal
1990 al 2017, grazie al rilevante potere discrezionale che ha il giudice nei giudizi di divorzio,
nelle aule dei nostri tribunali la logica assistenziale aveva condotto da tempo ad un inesorabile
declino del parametro del tenore di vita matrimoniale. Si è assistito, quindi, per anni ad un
significativo scollamento fra le affermazioni di principio (che dilatavano fino all’estremo il diritto
all’assistenza dovuta al coniuge debole oltre la fine del matrimonio) e i modesti esiti pratici di
tali affermazioni. Su tale frattura fra affermazioni teoriche ed esiti pratici, ci sia consentito
rinviare a quanto scritto più ampiamente in Rimini, Il nuovo divorzio, in Tratt. Dir. Civ. e Comm.,
a cura di Cicu, Messineo, Milano, 2015, 105 e segg.
[11] Cass., 10 maggio 2017, n. 11504, in Giur. It., 2017, 1299 con nota di Di Majo; in Giur. It.,
2017, 1796 con nota di Rimini; in Corriere Giur., 2017, 885, con nota di Quadri; in Fam. e Dir.,
2017, 636, con note di Al Mureden e Danovi; in Nuova Giur. comm., 2017, 1001, con nota di
Roma; in Foro It., 2017, I, 1859, con note di Casaburi, Bona e Mondini; in Foro It., 2017, I,
2707, con note di Patti e M. Bianca.
[12] Questa metafora è già stata utilizzata da Danovi, La Cassazione e l’assegno di divorzio: en
attendant Godot (ovvero le Sezioni Unite), in Fam. e Dir., 2018, 51.
[13] Cass., 10 maggio 2017, n. 11504, cit.
[14] Cass., 2 marzo 1990, n. 1652, cit.
[15] Peraltro, la soluzione lessicale proposta nel marzo 1990 è stata espressamente riproposta
nella prima occasione in cui la Cassazione ha ribadito l’orientamento affermato nella sentenza
n. 11504/2017. Cass., 11 maggio 2017, n. 11538, in www.ilfamiliarista.it del 30 giugno 2017,
con nota di Rovacchi, infatti afferma: “L’assegno divorzile ha indubbiamente natura
assistenziale e deve essere disposto in favore della parte istante la quale disponga di redditi
insufficienti a condurre un’esistenza libera e dignitosa, e deve essere contenuto nella misura
che permetta il raggiungimento dello scopo senza provocare illegittime locupletazioni”.
[16] Così Cass., 29 agosto 2017, n. 20525, ord., in Fam. e Dir., 2018, 573, con nota di
Giorgianni; Cass., 9 ottobre 2017, n. 23602, ord., in Corriere Giur., 2017, 1597; Cass., 25
ottobre 2017, n. 25327, in www.ilfamiliarista.it, 23 gennaio 2018, con nota di Fasano; Cass., 26
gennaio 2018, n. 2042, in Fam. e Dir., 2018, 321, con nota di Figone; Cass., 7 febbraio 2018,
n. 3015, ord., in Ced Cassazione, 2018.; Cass., 7 febbraio 2018, n. 3016, ord., in Dir. e Giust.,
8 febbraio 2018.
[17] Così Cass., 26 gennaio 2018, n. 2042, cit. e Cass., 26 gennaio 2018, n. 2043, in Fam. e
Dir., 2018, 324, con nota di Figone: “Le variabili sono molte [e] numerose per un adeguamento
il più possibile efficace alla situazione concreta. In tal senso, si potrebbe fin d’ora escludere
pericolosi automatismi (ad es. multipli della pensione sociale o simili) che renderebbero
autosufficienza o non autosufficienza identiche sempre a se stesse ed uguali per tutti. Il
coniuge richiedente l’assegno non può riguardarsi come una entità astratta, ma deve
considerarsi come singola persona nella sua specifica individualità”.
[18] Cass., 7 febbraio 2018, n. 3015, cit.: “[Il parametro dell’autosufficienza economica] va
apprezzato con la necessaria elasticità e l’opportuna considerazione dei bisogni del richiedente
l’assegno, considerato come persona singola e non come ex coniuge, ma pur sempre inserita
nel contesto sociale. Per determinare la soglia dell’indipendenza economica occorrerà avere
riguardo alle indicazioni provenienti, nel momento storico determinato, dalla coscienza collettiva
e, dunque, né bloccata alla soglia della pura sopravvivenza né eccedente il livello della
normalità, quale, nei casi singoli, da questa coscienza configurata e di cui il giudice deve farsi
interprete, ad essa rapportando, senza fughe, le proprie scelte valutative, in un ambito
necessariamente duttile, ma non arbitrariamente dilatabile”.
[19] App. Milano, 16 novembre 2017, in Giur. It., 2017, 2625, con nota di Di Majo; in Corriere
Giur., 2018, 319, con nota di Rimini; in Foro It., 2017, I, 3732; in Fam. e Dir., 2018, 335 con
nota di Al Mureden.
[20] Trib. Udine, 1° giugno 2017, in Fam. e Dir., 2018, 272, con nota di Colangelo: “Il giudizio
sull’an non può essere logicamente distinto da quello sul quantum, atteso che si tratta di
un’unica operazione in cui i due aspetti si contemperano e servono a trovare un equo
bilanciamento di tutte le esigenze rappresentate dal legislatore nell’art. 5, 6° e 9° comma, l.
div.”.
[21] App. Napoli, 22 febbraio 2018, in Foro It., 2018, I, 1386 e in Fam. e Dir., 2018, 360, con
nota di Danovi. Per una ampia disamina della sentenza napoletana compiuta dallo stesso
relatore, si veda Bartolomucci (a cura di), Questioni di diritto civile all’esame delle Sezioni Unite.
Gli effetti economici della crisi coniugale, resoconto del Convegno Gli effetti economici della
crisi coniugale organizzato, in data 28 febbraio 2018, dalla Struttura decentrata della Corte
Suprema di Cassazione, in Familia, 2018, 444 e seg..
[22] Ricordiamo Danovi, Assegno di divorzio e irrilevanza a del tenore di vita matrimoniale: il
valore del precedente per i giudizi futuri e l’impatto sui divorzi già definiti, in Fam. e Dir., 2017,
657; Id, La Cassazione e l’assegno di divorzio: en attendant Godot (ovvero le Sezioni Unite),
cit., 51; Sesta, La solidarietà post-coniugale tra funzione assistenziale ed esigenze
compensatorie, in Fam. e Dir., 2018, 509 e segg.; Patti, Assegno di divorzio: un passo verso
l’Europa?, in Foro It., 2017, I, 2707 e segg.; M. Bianca, Il nuovo orientamento in tema di
assegno divorzile. Una storia incompiuta, in Foro It., 2017, I, 2715; Al Mureden, L’assegno
divorzile tra autoresponsabilità e solidarietà post-coniugale, in Fam. e Dir., 2017, 645; C.M.
Bianca, L’ultima sentenza della Cassazione in tema di assegno divorzile: ciao Europa, in
Giustizia civile.com, Editoriale del 9 giugno 2017; Di Majo, Assistenza o riequilibrio negli effetti
del divorzio?, in Giur. It., 2017, 1299; Quadri, I coniugi e l’assegno di divorzio tra conservazione
del “tenore di vita” e “autoresponsabilità”: “persone singole” senza passato?, in Corriere Giur.,
2017, 7, 885; Id, L’assegno di divorzio tra conservazione del “tenore di vita” e
“autoresponsabilità”: gli ex coniugi ‘‘persone singole’’ di fronte al loro passato comune, in Nuova
Giur. Comm., 2017, 1261; Fortino, Il divorzio, l’autoresponsabilità degli ex coniugi e il nuovo
volto della donna e della famiglia, in Nuova Giur. Comm., 2017, 1254; Savi, Il riconoscimento
dell’assegno divorzile: dal parametro del “tenore di vita” dei con-sorti alla verifica
dell’autosufficienza personale del richiedente?, in Riv. Dir. Priv., 2017, 599 e segg.; Casaburi,
Tenore di vita ed assegno divorzile (e di separazione): c’è qualcosa di nuovo oggi in
Cassazione, anzi d’antico, in Foro It., 2017, I, 1895; Bona, Il revirement sull’assegno divorzile e
gli effetti sui rapporti pendenti, in Foro It., 2017, I, 1900; Bargelli, Tenore di vita matrimoniale e
principio di autoresponsabilità: inconciliabilità o resilienza?, in I nuovi orientamenti della
Cassazione civile, a cura di Granelli, Milano, 2018, 31 e seg.; Mondini, Sulla determinazione
dell’assegno divorzile la sezione semplice decide “in autonomia”, in Foro It., 2017, I, 1903;
Spadafora, Il “nuovo” assegno di divorzio e la misura della responsabilità postaffettiva, in
www.giustiziacivile.com, 25 luglio 2017; Barba, Assegno divorzile e indi-pendenza economica
del coniuge. Dal diritto vivente al diritto vigente, in www.giustiziacivile.com, 27 novembre 2017;
Figone, Assegno divorzile e valutazione ponderata dell’autosufficienza economica: un
“apripista” per le Sezioni Unite? in Fam. e Dir., 2018, 326 e segg.; Colangelo, Assegno
divorzile: la vexata quaestio del rilievo da attribuire al tenore di vita matrimoniale, in Fam. e Dir.,
2017, 274 e segg.; Piantanida, L’assegno di divorzio dopo la svolta della Cassazione:
orientamenti (e disorientamenti) nella giurisprudenza di merito, in Fam. e Dir. 2018, 65. A
questi ci permettiamo di aggiungere Rimini, Verso una nuova stagione per l’assegno divorzile
dopo il crepuscolo del fondamento assistenziale, in Nuova Giur. Comm., 2017, 1274; Id,
Assegno di mantenimento e assegno divorzile: l’agonia del fondamento assistenziale, in Giur.
It., 2017, 1799; Id, Assegno di divorzio: non è solidarietà, non è assistenza ciò che l’ex coniuge
va cercando, in Corriere Giur., 2018, 323 e segg.
[23] Così, Patti, Assegno di divorzio: un passo verso l’Europa? cit.
[24] Così Sesta, La solidarietà post-coniugale tra funzione assistenziale ed esigenze
compensatorie, cit.; Quadri, I coniugi e l’assegno di divorzio tra conservazione del “tenore di
vita” e “autoresponsabilità”: “persone singole” senza passato? cit. Ci permettiamo di aggiungere
Rimini, Verso una nuova stagione per l’assegno divorzile dopo il crepuscolo del fondamento
assistenziale, cit.
[25] Così Danovi, Assegno di divorzio e irrilevanza del tenore di vita matrimoniale: il valore del
precedente per i giudizi futuri, cit., 655 e segg.
[26] Più innanzi, la sentenza annotata precisa ulteriormente il suo fondamentale insegnamento:
“L’inadeguatezza dei mezzi o l’incapacità di procurarseli per ragioni oggettive [deve] essere
desunta dalla valutazione, del tutto equiordinata degli indicatori contenuti nella prima parte
dell’art. 5, 6° comma, in quanto rivelatori della declinazione del principio di solidarietà, posto a
base di un giudizio relativistico e soggettivo di adeguatezza”.
[27] Ci permettiamo di ricordare che, annotando su questa Rivista, Cass. n. 11504/2017
(Rimini, Assegno di mantenimento e assegno divorzile: l’agonia del fondamento assistenziale,
cit., 1806), si era formulata una “proposta alternativa” che partiva da questa considerazione:
“[La norma] si limita ad utilizzare l’aggettivo “adeguati” senza ulteriori specificazioni. Che cosa
impedisce all’interprete di leggere questo aggettivo come riferito alla situazione concreta di
ogni singolo matrimonio? Redditi quindi adeguati a ciò che appare equo alla luce dei criteri
indicati nella parte centrale della norma e, soprattutto, al contributo personale ed economico
dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di
quello comune e alla durata del matrimonio”.
[28] Quadri, I coniugi e l’assegno di divorzio tra conservazione del “tenore di vita” e
“autoresponsabilità”: “persone singole” senza passato?, cit., 885; Sesta, La solidarietà postconiugale
tra funzione assistenziale ed esigenze compensatorie, cit., 514.
[29] Rimini, Assegno di mantenimento e assegno divorzile: l’agonia del fondamento
assistenziale, cit., 1805.
[30] Tanto che una dottrina autorevole ha evidenziato come le norme italiane tutelino
oltremisura il coniuge debole rispetto a quanto avviene negli altri ordinamenti europei: cfr. Patti,
Obbligo di mantenere e obbligo di lavorare, in Introduzione al diritto della famiglia in Europa, a
cura di Patti e Cubeddu, cit., 309. Nello stesso senso si veda anche Alcaro, Note in tema di
assegno divorzile: il “tenore di vita in costanza di matrimonio”, un’aporia interpretativa?, in Fam
e Dir., 2013, 1081 e segg.
[31] In questo senso Quadri, Definizione degli assetti economici postconiugali ed esigenze
perequative, in Dir. Famiglia, 2005, 1307; Id, Brevissima durata del matrimonio e assegno di
divorzio, in Corriere Giur., 2009, 474. In senso favorevole alla svolta compensativa introdotta
dalla sentenza annotata sono anche i primi sintetici commenti: Al Mureden, Parità tra coniugi e
funzione perequativa dell’assegno divorzile dopo la decisione delle Sezioni unite, in
Giustiziacivile.com, n. 7/2018; Simeone, Il nuovo assegno di divorzio dopo le Sezioni Unite:
ritorno al futuro?, in Ilfamiliarista.it, 17 luglio 2018.
[32] Perplessità rispetto al modello di assegno post-matrimoniale delineato dal legislatore
costruito attorno alla sua funzione assistenziale sono espresse anche da Sesta, Negoziazione
assistita e obblighi di mantenimento nella crisi della coppia, in Fam. e Dir., 2015, 300 e segg.
[33] La sentenza annotata espressamente afferma: “Il richiamo all’attualità, avvertito dalla
sentenza n. 11504 del 2017, in funzione della valorizzazione dell’autoresponsabilità di ciascuno
degli ex coniugi deve, pertanto, dirigersi verso la preminenza della funzione equilibratriceperequativa
dell’assegno di divorzio” (corsivo aggiunto) ed aggiunge “I criteri determinativi, ed
in particolare quello relativo all’apporto fornito dall’ex coniuge nella conduzione e nello
svolgimento della complessa attività endofamiliare, cui il Collegio ritiene di attribuire primaria e
peculiare importanza”.
[34] La sentenza annotata esattamente osserva che si prospettava “sostanzialmente una
lettura dell’art. 5, 6° comma, abrogatrice della prima parte”.
[35] Su questo aspetto ci permettiamo di rinviare a Rimini, Assegno di mantenimento e assegno
divorzile: l’agonia del fondamento assistenziale, cit., 1803 e seg.
[36] Per una proposta in questo senso, ci permettiamo di rinviare a Rimini, L’accertamento del
reddito e del patrimonio delle parti nei giudizi di separazione e divorzio: proposta per un
modello di disclosure, in Fam. e Dir., 2011, 739. Solo pochi Tribunali hanno seguito questa
strada. Ricordiamo il Tribunale di Roma, il Tribunale di Torino e il Tribunale di Monza.
[37] Il D.L. n. 132/2014, convertito con modificazioni dalla L. n. 162/2014, ha ulteriormente
ampliato, e definitivamente affermato, il potere inquisitorio del giudice nei giudizi di separazione
e divorzio al fine della esatta ricostruzione dei redditi e del patrimonio delle parti. L’art. 19 ha
infatti espressamente previsto la possibilità che le disposizioni in materia di ricerca con modalità
telematica – ed in particolare mediante l’accesso alla banca dati dell’anagrafe tributaria – dei
beni del debitore si applichino anche per la ricostruzione dell’attivo e del passivo dei coniugi nei
procedimenti in materia di famiglia. Per valutare le potenzialità istruttorie dell’indagine sul
patrimonio dei coniugi con modalità telematiche, è necessario ricordare che il nuovo art. 155
bis disp. att. c.p.c. (pure introdotto dal D.L. n. 132/2014) afferma che “per archivio dei rapporti
finanziari di cui all’art. 492 bis, 2° comma, del codice si intende la sezione di cui all’art. 7, 6°
comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 605”. Si tratta della
sezione della banca-dati dell’Anagrafe tributaria nella quale confluiscono e sono archiviate le
notizie relative ai flussi di denaro veicolati attraverso il circuito bancario. Questo archivio è stato
istituito dall’art. 37 della L. n. 248/2006 (ed è noto, nella prassi con il nome di sistema di
controllo Serpico).
[38] Una analisi attenta è compiuta da Bargelli, Tenore di vita matrimoniale e principio di
autoresponsabilità: inconciliabilità o resilienza? cit.; un confronto, come sempre,
particolarmente attento all’esperienza tedesca si legge in Patti, Assegno di divorzio: un passo
verso l’Europa?, 2710 e segg.
[39] Cfr. C.M. Bianca, L’ultima sentenza della Cassazione in tema di assegno divorzile: ciao
Europa, in giustiziacivile.com, Editoriale del 9 giugno 2017, cit.
Autore: Legge per Tutti 24 ott, 2018
Se il tuo ex marito non ti ha versato il mantenimento e per questa ragione lo hai denunciato ai carabinieri in modo da assistere, felicemente, alla sua condanna per il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare, sappi che, oltre alle mensilità arretrate, ti dovrà versare anche un indennizzo. Non lo sapevi? Sì, stando a una recente sentenza del tribunale di Roma, per l’ omesso versamento del mantenimento spetta il risarcimento . Vuoi saperne di più? Ti invito a leggere queste righe.

Il processo penale, la condanna e il risarcimento del danno

Se è vero che chi rompe paga, a maggior ragione è vero che chi commette un reato deve anche risarcire le conseguenze del suo misfatto. Facile sarebbe altrimenti cavarsela con un processo penale che quasi sempre si conclude con la prescrizione o, magari, con una sanzione pecuniaria di poche migliaia di euro. E così, oltre alla pena, ci sono anche gli effetti civili scaturenti dalla propria condotta o, che dir si voglia, i danni  provocati alla vittima. Ecco che allora, per fare prima, il codice ha previsto la costituzione di parte civile , un modo che ha la parte lesa per partecipare al processo penale e ottenere un anticipo sul risarcimento, la cosiddetta “ provvisionale ”, in attesa poi di avere il resto con una causa autonoma dal giudice civile. Il risarcimento del danno in caso di reato funziona proprio così. E non fanno eccezione neanche i reati commessi ai danni della propria ex moglie o dei figli cui non sia stato versato l’ assegno di mantenimento . A spiegare esattamente come vanno le cose è la sentenza del tribunale di Roma [1] .

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Violazione degli obblighi di assistenza familiare

Commette reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare la persona che fa mancare i mezzi di sussistenza ai figli minori o al coniuge. La pena prevista è, congiuntamente, quella della reclusione fino ad un anno e della multa da 103 a 1.032 euro. Il reato è perseguibile a querela, ma quando è commesso a danno di minori diventa procedibile d’ufficio.

Il  genitore  può far mancare i mezzi ai figli minorenni o inabili al lavoro. La tutela riguarda anche i figli adottivi e, si ritiene, anche il minore in stato di affidamento. Si discute quando i figli possano essere definiti “inabili al lavoro”, la Cassazione nega che tali possano considerarsi i figli maggiorenni studenti, mentre la giurisprudenza di merito, almeno in un caso, sostiene che con tale espressione il legislatore faccia riferimento anche alla condizione di disoccupazione involontaria (Pret. Lecce 5 aprile 1996);

Il  coniuge  può far mancare tali mezzi all’altro coniuge, anche se è intervenuta separazione, purché la separazione non gli sia stata addebitata con sentenza passata in giudicato. Per il coniuge divorziato, invece, sono previsti altri strumenti a condizione che a suo favore sia stato disposto il pagamento di un assegno;

Perché si configuri il reato, devono sussistere i seguenti elementi:

  • la vittima deve versare in stato di bisogno ; rispetto ai figli minori lo stato di bisogno è insito nel fatto stesso che si tratta di soggetti che non possono procurarsi un reddito proprio;
  • il colpevole deve avere la concreta  capacità di fornire i mezzi di sussistenza . Se invece si trova nell’impossibilità assoluta e incolpevole di somministrare tali mezzi (disoccupato non per sua colpa), non c’è reato;
  • la mancata assistenza deve avere l’effetto di far mancare totalmente o parzialmente i mezzi di sussistenza. La nozione penalistica di mezzi di sussistenza (diversa da quella di mantenimento in senso civilistico) comprende tutto ciò che attiene ai bisogni elementari dell’esistenza (vitto, abbigliamento, abitazione, medicinali, ecc.); le spese per l’istruzione dei figli (Cass. SU 31 gennaio 2013 n. 23866); altri beni importanti per il beneficiario anche se relativi ad esigenze qualificabili come secondarie o complementari alla vita quotidiana; gli strumenti che consentono, in rapporto alle reali capacità economiche e al regime di vita del soggetto obbligato, un pur contenuto soddisfacimento delle altre complementari esigenze della vita quotidiana come i libri di istruzione per i figli minori, i mezzi di trasporto, i canoni per luce, gas, riscaldamento.

Si può avere il risarcimento del danno se non si paga il mantenimento?

In caso di omesso pagamento dell’assegno di mantenimento, l’ex moglie ha diritto ad ottenere il risarcimento anche dei danni morali subiti. Così ha affermato il tribunale di Roma. Ma quali danni morali ? La madre che si trova senza soldi per mandare avanti la famiglia e i figli subisce uno stato di ansia e preoccupazione, un turbamento psichico transitorio e soggettivo conseguente proprio al fatto di reato. Viene dunque a concretizzarsi il danno morale risarcibile in presenza di reato.

note

[1]  Trib. Roma, sent. n. 17144/18 del 12.09.2018.

Tribunale di Roma, sez. I Civile, sentenza 11 – 12 settembre 2018, n. 17144

Giudice Ciani

Ragioni di fatto e di diritto della decisione

Con atto di citazione ritualmente e tempestivamente notificato, (omissis…) in proprio e in qualità di genitore esercente la responsabilità sui figli (all’epoca tutti minorenni) (omissis…) (tale dovendosi intendere la dicitura “anche in nome e per conto dei figli …” di cui all’epigrafe dell’atto di citazione), conveniva in giudizio, dinanzi all’intestato Tribunale, l’ex coniuge (omissis…) per ivi sentirlo condannare al risarcimento dei danni patiti per la violazione degli obblighi di mantenimento oltre che per la lesione della sua dignità e del suo onore, nella misura di Euro 64.000,00 o nella diversa misura ritenuta di giustizia.

Premesso di aver contratto matrimonio con (omissis…) il 29 novembre 1997 e che in costanza di matrimonio erano nati quattro (omissis…), deduceva l’attrice che con sentenza n. 18491 del 2012 il Tribunale di Roma pronunciava lo scioglimento del matrimonio contratto tra le parti ponendo a carico del l’obbligo di corrisponderle a titolo di assegno divorzile la somma mensile di Euro 1000,00 e a titolo di contributo per il mantenimento dei figli con lei conviventi la ulteriore somma mensile di Euro 2,000.00 a far data dall’ottobre 2012, oltre al 50% delle spese straordinarie afferenti i figli; che con decreto del 12 dicembre 2014 il medesimo Tribunale modificava le ridette condizioni ponendo a carico del convenuto l’obbligo di corrispondere all’istante la somma mensile di Euro 600,00 a titolo di assegno divorzile e la somma mensile di Euro 350,00 per ciascuno dei figli (omissis…) nonché di provvedere direttamente al mantenimento della figlia (omissis…) che il (omissis…) si era reso sistematicamente inadempiente a tali obblighi di mantenimento nonché a quello di corrispondere il canone di locazione dell’immobile abitato dalla medesima e dai figli, il cui relativo contratto era stato sottoscritto da entrambi, di talché la stessa aveva ricevuto intimazione di sfratto per morosità; che, inoltre, il (omissis…) aveva posto in essere condotte lesive della dignità e dell’onore dell’attrice, offendendola e minacciandola financo di morte; in ragione di ciò la stessa esponente aveva sporto denuncia nei confronti del (omissis…) ed aveva intrapreso azione esecutiva per il recupero dell’ingente credito vantato nei confronti del medesimo; che, infine, tale situazione aveva cagionato all’istante un danno morale quantificabile in Euro 2000,00 per ogni mese di inadempimento a decorrere dall’ottobre 2012.

Non si costituiva in giudizio, sebbene ritualmente evocato, (omissis…) che veniva, pertanto, dichiarato contumace.

Acquisita la documentazione prodotta dall’attrice e sentito il teste (omissis…), all’udienza del 6 giugno 2018 il giudice tratteneva la causa in decisione con termine di giorni sessanta per il deposito della comparsa conclusionale.

La domanda attorea è fondata e merita di essere accolta nei limiti di seguito esposti.

Premesso che è onere del convenuto provare l’adempimento delle obbligazioni sul medesimo gravanti in virtù della sentenza di scioglimento del matrimonio tra le parti (Trib. Roma, n. 18491 del 2012 – doc. all. n. 1 all’atto di citazione), come successivamente modificata con decreto dell’intestato Tribunale del 23 dicembre 2014 (doc. all. n. 2 all’atto di citazione), onere non assolto essendo il (omissis…) rimasto contumace, mette conto evidenziare che l’inadempimento di quest’ultimo agli obblighi di mantenimento dei tigli e di corresponsione dell’assegno divorzile all’ex coniuge è comprovato dal contenuto dei messaggi prodotti dall’attrice (doc. all. n. 3 all’atto di citazione), contenenti anche minacce, nonché dall’atto di pignoramento presso terzi notificato dalla (omissis…) successivamente alla notifica, l’8 agosto 2014, dell’atto di precetto per il mancato pagamento dell’assegno divorzile e dell’assegno di mantenimento per i figli da ottobre 2012 a giugno 2014 (doc. all. n. 6 all’atto di citazione).

Orbene, a norma dell’art. 12 sexies della legge n. 898 del 1970 e successive modificazioni “Al coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione dell’assegno dovuto a norma degli artt. 5 e 6 della presente legge si applicano le pene previste dall’art. 570 c.p.”, norma che prevede e punisce il delitto di “Violazione degli obblighi di assistenza familiare”.

A ciò aggiungasi che l’unico teste escusso nel corso del giudizio, (omissis…) carabiniere, compagno dell’attrice, ha confermato che l’attrice ha ricevuto sul cellulare più volte e almeno in data 22 luglio 2013 e 13 ottobre 2013 messaggi di minaccia di farla morire di fame da parte del (omissis…) a seguito dei quali la stessa aveva attacchi di panico.

Alla stregua delle illustrate emergenze istruttorie deve correttamente ritenersi che la condotta posta in essere dai convenuto integra gli estremi del reato di cui all’art. 12 sexies cit. oltre che del delitto di minaccia (art. 612 c.p.c.) e che trattasi di condotte idonee ad ingenerare nella vittima uno stato di ansia e preoccupazione, un turbamento psichico transitorio e soggettivo conseguente proprio al fatto di reato, come, peraltro, confermato nel caso specifico dal teste escusso, turbamento in cui si sostanzia il così detto danno morale, risarcibile a mente del disposto dell’art. 2059 c.c. in presenza di un reato anche se accertato incidentalmente.

Tale pregiudizio non può che essere liquidato in via equitativa ai sensi dell’art. 1226 c.c. e tenuto conto della gravità dei fatti e delle illustrate emergenze istruttorie nonché del protrarsi negli anni della condotta del convenuto che, oltre a costringere l’attrice ad agire esecutivamente, l’ha anche esposta unitamente ai figli ad uno sfratto per morosità, appare equo quantificarlo in complessivi Euro 20.000,00 attuali (Euro 5.000.00 in favore dell’attrice e di ciascuno dei tre figli in nome dei quali la stessa ha agito).

Su tale somma, liquidata all’attualità e già rivalutata, decorrono e sono dovuti gli interessi legali a far data dalla pubblicazione della presente sentenza.

Le spese di lite, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza e dovranno essere corrisposte dal (omissis…) all’erario ai sensi dell’art. 133 del D.P.R. 115 del 2002, stante l’ammissione dell’attrice al beneficio del patrocinio a spese dello Stato.

P. Q. M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando nella causa civile in primo grado iscritta al n. 40592/2015 R.G.A.C., disattesa ogni contraria istanza, deduzione ed eccezione, così decide:

condanna il convenuto al pagamento, in favore di (omissis…) per i titoli di cui in parte motiva, della somma di Euro 20,000,00, oltre interessi legali a far data dalla pubblicazione della presente sentenza;

condanna il convenuto al pagamento, in favore dell’erario, delle spese di lite liquidate in complessivi Euro 2,417,50 per compenso professionale, oltre IVA, CPA e rimborso spese forfettarie (15%) come per legge.

Roma, 11 settembre 2018.


Autore: Niccolo Magnani 24 ott, 2018

Niccolò Magnani

Autore: avv. Matteo Santini 23 ott, 2018
Avv. Matteo Santini -  L'obbligo di mantenere i figli deriva innanzitutto dall'art. 315 bis, comma 1, c.c. che sancisce il dovere per entrambi i genitori di mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle inclinazioni e delle aspirazioni dei figli, in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo.


L'obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni

La legge sull'affidamento condiviso (n. 54/2006) aveva espressamente disposto che il giudice, valutate le circostanze, poteva disporre in favore dei figli maggiorenni  non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico. Successivamente, la legge 154 del 2013 introduceva l'art. 337 septies che prevede che il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico. Tale assegno, salvo diversa determinazione del giudice, e' versato direttamente all'avente diritto.

Natura obbligazione e limiti


L'obbligazione dei genitori è di tipo solidale ed è ripartita in proporzione alle sostanze patrimoniali e alla capacità lavorativa. L'obbligazione di estende sia alle spese ordinarie (vitto, alloggio, ecc.,) sia a quelle straordinarie (sport, hobby, viaggi, ecc). Sulla distinzione tra spese ordinarie e straordinarie si veda il Protocollo sottoscritto nel 2014 tra il Tribunale di Roma e l'Ordine degli Avvocati di Roma.

Cessazione dell'obbligo di mantenimento


Seppure l'obbligazione dei genitori non cessa con il raggiungimento della maggiore età è pur vero che con il superamento di una certa età, il figlio maggiorenne, anche se non indipendente, raggiunge comunque una sua dimensione di vita autonoma che lo rende, semmai, meritevole dei diritti ex art. 433 c.c. (alimenti) ma non può più essere trattato come 'figlio', bensì come adulto". Ciò viene motivato sulla base del dovere di auto-responsabilità del figlio maggiorenne che non può pretendere la protrazione dell'obbligo al mantenimento oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura, perché "l'obbligo dei genitori si giustifica nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso di formazione" (Cass. n. 18076/2014; Cass. SS.UU. n. 20448/2014).

La soglia di età


Alcuni tribunali tra cui quello di Milano stabiliscono una soglia di età (34 anni per il Tribunale di Milano) oltre la quale "lo stato di non occupazione del figlio maggiorenne non può più essere considerato quale elemento ai fini del mantenimento, dovendosi ritenere che, da quel momento in poi, il figlio stesso possa, semmai, avanzare le pretese riconosciute all'adulto.
Ovviamente, è opportuno valutare caso per caso ma certamente stabilire almeno di massima delle "soglie" consente di evitare ricorsi che alimentano vere e proprie forme di parassitismo di figli adulti ai danni dei loro genitori sempre più anziani.

La cessazione del dovere secondo la Cassazione

La Corte di Cassazione con ordinanza 12 aprile 2016, n. 7168 sancisce che il dovere dei genitori di mantenere i figli maggiorenni cessa a seguito del raggiungimento, da parte di quest'ultimi, di una condizione di indipendenza economica che si verifica con la percezione di un reddito corrispondente alla professionalità acquisita ovvero quando il figlio, divenuto maggiorenne, è stato posto nelle concrete condizioni per poter essere economicamente autosufficiente, senza averne però tratto utile profitto per sua colpa o per sua scelta.
Pertanto, non qualunque tipo di lavoro fa cessare l'obbligo del mantenimento (ad esempio un lavoro precario) ma è sufficiente un reddito o il possesso di un patrimonio tali da garantire un'autosufficienza economica. E' evidente che a prescindere dall'età e della posizione socio culturale della famiglia una colposa inerzia nell'attuazione o prosecuzione di un valido percorso di formazione e/o studio determina la cessazione dell'obbligo di mantenimento da parte dei genitori. Ad esempio la Corte di Cassazione con sentenza n. 1585/2014, ha escluso il diritto al mantenimento del figlio ventottenne che aveva iniziato ad espletare attività lavorativa, ancorché saltuaria, e non frequentava con profitto il corso di laurea a cui risultava iscritto da più di otto anni.
L'indipendenza e l'autosufficienza economica presupposti per la cessazione dell'obbligo di mantenimento si considerano raggiunte ove il figlio trovi un impiego tale da consentirgli un reddito corrispondente alla sua professionalità e un'appropriata collocazione nel contesto economico-sociale di riferimento, adeguata alle sue attitudini ed aspirazioni.
La Corte di Cassazione ha affermato che laddove il figlio ottenga una serie di "contratti a termine e guadagni contenuti" possa dirsi raggiunta la sua autosufficienza economica (Cass. Civ. sentenza n. 13354 del 26.05.2017).
Invece, al contrario, in materia di contratto di apprendistato, la sentenza della Corte di Cassazione, numero 407, del 13.01.2007, ha stabilito che la mera prestazione di lavoro da parte del figlio occupato come apprendista non è di per sé tale da dimostrarne la totale autosufficienza economica, "atteso che il complessivo contenuto dello speciale rapporto di apprendistato….si distingue sotto vari profili, anche retributivi, da quello degli ordinari rapporti di lavoro subordinato".
Ove il figlio maggiorenne successivamente al raggiungimento della piena autosufficienza economica perda il lavoro, non potrà comunque più chiedere il mantenimento ai genitori ma vi sarà al massimo e al ricorrerne delle condizioni un obbligo alimentare".

Legittimazione ad agire


Il genitore obbligato al mantenimento non può di sua iniziativa versare l'assegno direttamente al figlio. E' solo il figlio maggiorenne che, ove lo desideri, chiedere al Giudice di disporre il versamento diretto del mantenimento.
La legittimazione attiva a richiedere l'assegno è attribuita sia al figlio maggiorenne che al genitore convivente con il figlio.
L'onere della prova sulla raggiunta autosufficienza del figlio maggiorenne spetta al genitore obbligato.

L'entità dell'assegno di mantenimento


Sull'entità dell'assegno di mantenimento, se non vi è accordo tra i genitori il giudice ne quantifica l'ammontare, tenendo conto del tenore di vita di cui godevano i figli quando ancora vivevano con entrambi i genitori, delle necessità, del livello socio - culturale della famiglia, dei redditi e delle sostanze dei genitori, del luogo in cui vive il figlio e di ogni altro elemento ritenuto utile.

Responsabilità penale per omesso versamento


La Corte di Cassazione, sesta sezione penale, con sentenza n. 24162 del 29 maggio 2018, ha ritenuto penalmente responsabile il genitore per aver omesso di corrispondere l'assegno di mantenimento in favore dei suoi due figli, entrambi maggiorenni.


Autore: ADUC- Associazione per i diritti degli utenti e consumatori 23 ott, 2018

Con una recente sentenza ( sentenza n. 23601/2017 ), le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono intervenute sulla questione se, in tema di contratti di locazione ad uso diverso da quello di abitazione, nell'ipotesi di tardiva registrazione del contestuale e separato accordo recante l'importo del canone maggiorato rispetto a quello indicato nel primo contratto registrato, sia configurabile un'ipotesi di sanatoria di tale nullità, e quindi hanno affrontato la questione se, pur al di là ed a prescindere dalla violazione dell'art. 79 della l. n. 392 del 1978, anche per i contratti di locazione ad uso diverso da abitazione debba farsi - in ipotesi di atti negoziali integranti un mero escamotage per realizzare una finalità di elusione fiscale - applicazione del principio affermato nella citata sentenza del S.U., 17 settembre 2015, n. 18213, con riferimento ai contratti di locazione ad uso abitativo.
La legge, come noto, impone che il contratto di affitto a uso abitativo sia non solo scritto, ma anche registrato presso l'Agenzia delle Entrate. In caso contrario il contratto è nullo. Pertanto, che succede in caso di omessa registrazione di affitto a uso commerciale?

Il contratto di locazione di immobili, sia ad uso abitativo che ad uso diverso, contenente "ab origine" l'indicazione del canone realmente pattuito (e, dunque, in assenza di qualsivoglia fenomeno simulatorio), ove non registrato nei termini di legge, è nullo ai sensi dell'art. 1, co. 346, della L. n. 311 del 2004, ma, in caso di tardiva registrazione, da ritenersi consentita in base alle norme tributarie, può comunque produrre i suoi effetti con decorrenza "ex tunc", atteso che il riconoscimento di una sanatoria "per adempimento" è coerente con l'introduzione nell'ordinamento di una nullità (funzionale) "per inadempimento" all'obbligo di registrazione.

In tema di locazione immobiliare per uso non abitativo, quindi, la mancata registrazione del contratto si pone in contrasto con la legge secondo cui: i «contratti di locazione, o che comunque costituiscono diritti relativi di godimento, di unità immobiliari ovvero di loro porzioni, comunque stipulati, sono nulli se, ricorrendone i presupposti, non sono registrati». Il contratto è dunque nullo per violazione di norme imperative. Tuttavia, è possibile sanare la nullità con una registrazione tardiva del contratto stesso. La registrazione tardiva non solo regolarizza le parti da un punto di vista fiscale (le sanzioni per l'evasione fiscale sono infatti ridotte se la registrazione avviene entro un anno, grazie al meccanismo del ravvedimento operoso), ma anche "mette in salvo" il contratto da tutte le conseguenze civilistiche della nullità. Il che significa che per le annualità/mensilità in cui il contratto non è stato registrato non è più possibile chiedere la restituzione dei canoni di locazione. La registrazione, dunque, anche se avviene in ritardo rispetto al termine di legge (30 giorni dalla data di stipula del contratto) ha effetto "retroattivo" e sana il contratto che, altrimenti, sarebbe stato nullo e non avrebbe prodotto alcun effetto. Il contratto è valido anche per il periodo anteriore alla registrazione, periodo che altrimenti sarebbe stato affetto da nullità.
E' nullo invece il patto con il quale le parti di un contratto di locazione di immobili ad uso non abitativo concordino occultamente un canone superiore a quello dichiarato; tale nullità "vitiatur sed non vitiat", con la conseguenza che il solo patto di maggiorazione del canone risulterà insanabilmente nullo, a prescindere dall'avvenuta registrazione.

La sanzione di nullità sancita dall'art. 79 della L. n. 392 del 1978, tradizionalmente intesa come volta a colpire le sole maggiorazioni del canone previste "in itinere" e diverse da quelle consentite "ex lege", deve, invece, essere letta nel senso che il patto di maggiorazione del canone è nullo anche se la sua previsione attiene al momento genetico, e non soltanto funzionale, del rapporto.

In definitiva, la mancata registrazione del contratto di locazione di immobili è causa di nullità dello stesso; il contatto di locazione di immobili, quando sia nullo per (la sola) omessa registrazione, può comunque produrre i suoi effetti con decorrenza ex tunc, nel caso in cui la registrazione sia effettuata tardivamente; è invece nullo il patto col quale le parti di un contratto di locazione di immobili ad uso non abitativo concordino occultamente un canone superiore a quello dichiarato, con la conseguenza che il solo patto di maggiorazione del canone risulterà insanabilmente nullo, a prescindere dall'avvenuta registrazione.

Autore: Di Marco Giampaolo 23 ott, 2018

In materia di sinistro stradale, il trasportato di un veicolo non assicurato può chiedere il risarcimento del danno al fondo di garanzia anche avvalendosi del regime di responsabilità di cui all’art. 141 del codice delle assicurazioni private e, quindi, senza alcuna esigenza di provare la genesi del danno. Il Tribunale di Foggia, in persona del Magistrato Dott. Vincenzo De Palma, con sentenza n. 227/2018, pronunziata il 13 settembre 2018, nel contesto di una controversia in materia di risarcimento del danno da sinistro stradale, ha fissato tre importanti principi di diritto in relazione a problematiche che, seppur differenti fra di loro, tendono a ricorrere congiuntamente con una certa frequenza in cause di questo genere.

 

La prima affermazione riguarda il  diritto del soggetto trasportato in un veicolo privo di copertura assicurativa di esigere il risarcimento del danno nei confronti del fondo di garanzia per le vittime della strada, purché inconsapevole che il mezzo motorizzato stesse circolando illegalmente. Si discute dell’ipotesi in cui il danneggiato non sia trasportato contro la sua volontà, ma, pur avendo fatto liberamente accesso sull’abitacolo, non sia edotto della mancata assicurazione dell’autoveicolo.

Per giungere a tale conclusione, il giudice propone un’interpretazione dell’art. 283, 1° comma, del D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209 (c.d. Codice delle assicurazioni private), contenente il catalogo dei danni suscettibili di attivare la tutela risarcitoria del fondo di garanzia, in combinato disposto con l’art. 141, che consente al danneggiato di agire direttamente nei confronti dell’impresa di assicurazione del veicoli in cui viaggiava.

L’art. 283, comma 1, del codice delle assicurazioni private, se letteralmente interpretato, non sembra autorizzare la proposizione di domande risarcitorie contro il fondo di garanzia da parte del soggetto trasportato su un motoveicolo non assicurato che intenda esercitare l’azione diretta di cui all’art. 141.

Più precisamente, l’art. 283, comma 1 , lett. b), nell’assegnare al fondo di garanzia l’obbligo di risarcire i danni causati dalla circolazione di mezzi non assicurati, include chiaramente l’ipotesi in cui la responsabilità di questi ultimi sia predicata ai sensi dell’art. 2054 c.c., ma nulla testualmente dispone con riferimento all’evenienza in cui essa sia predicata alla stregua dell’art. 141 c.p.a..

Infatti, le due fattispecie normative di imputazione dell’ obbligazione risarcitoria  (art. 2054 ed art. 141 c.a.p.) sono sensibilmente differenti, in quanto la prima si fonda su una sorta di presunzione di colpa, superabile con la prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno (da ultimo: Cass. civ. sez. III, 20 marzo 2017, n. 7056), mentre la seconda definisce limpidamente una forma di responsabilità oggettiva, esclusa dal solo caso fortuito.

Non è un caso, del resto, che soltanto l’art. 2054 c.c. richiama il concetto di causazione del sinistro ad opera del mezzo motorizzato (“ il conducente di un veicolo senza guida di rotaie è obbligato a risarcire il danno prodotto a persone o a cose dalla circolazione del veicolo …”), essendo l’azione diretta  ex art. 141 emancipata da ogni valutazione in punto di causalità e di colpa (“…  a prescindere dall’accertamento dell’accertamento della responsabilità dei conducenti dei veicoli coinvolti nel sinistro …”).

In altri termini, la vittima di un sinistro stradale, secondo le  norme generali sulla responsabilità civile  ex art. 2054 c.c., beneficia dell’altrui presunzione di responsabilità; di contro, il diritto risarcitorio del trasportato, sulla base della disposizione eccezionale di cui all’art. 141 c.a.p., non si fonda su alcuna stima in ordine alla colpa del conducente del veicolo antagonista, che, infatti, non deve essere né allegata, né dimostrata ( Cass. civ. sez. III, 30 luglio 2015, n. 16181, correttamente richiamata nella sentenza in discorso, nonché: Cass. civ., sez. III, 30 agosto 2013, n. 19963).

Pertanto, la fattispecie di responsabilità di cui all’art. 141, differenziandosi ontologicamente da quella di cui all’art. 2054 c.c., non può automaticamente sussumersi nella categoria di cui all’art. 283, comma 1, lett. b) e, quindi, beneficiare della tutela risarcitoria offerta dal fondo di garanzia, se non attraverso espedienti interpretativi o, ancor meglio, un’esegesi costituzionalmente orientata, che, in effetti, il giudice foggiano compie.

Nella sentenza in discorso, infatti, si mette in luce l’esigenza, più volte rammentata dalla Corte Costituzionale ( Corte cost. ord., 24 novembre 2010, n. 336; Corte cost. ord., 13 giugno 2008, n. 205), di tutelare il trasportato inconsapevole che il veicolo su cui è a bordo non sia assicurato, da intendersi quale soggetto debole, siccome, al contempo, esposto all’azione potenzialmente lesiva tanto del conducente del mezzo ospitante, quanto dell’automobile antagonista.

L’approccio metodologico appare corretto, postulando l’incidente di costituzionalità l’infruttuosa ricerca di soluzioni costituzionalmente adeguate ( Corte cost., ord. 6 giugno 2008, n. 193; Corte cost. ord. 30 maggio 2008, n. 193; Corte cost., ord. 23 maggio 2008, n. 193; Corte cost. ord. 16 maggio 2008, n. 156; Corte cost. ord. 16 maggio 2008, n. 155; Corte cost. ord. 16 maggio 2008, n. 156; Corte cost. sent. 16 maggio 2008, n. 147).

L’unico argomento adoperato dall’ordinanza in esame, consistente nell’opportuna implementazione della protezione accordata al trasportato, è sufficiente a giustificare la conclusione a cui è addivenuta.

In difetto di una violazione della minima tutela costituzionale garantita al danneggiato (rilevante ai sensi dell’art. 3) o di un’irragionevole disparità di trattamento (significativa a mente dell’art. 24), l’attribuzione al danneggiato di un grado di protezione più o meno elevato rientra nella normale discrezionalità legislativa.

Non può escludersi, tuttavia, che il precedente del Tribunale di Foggia potrà condurre ad un successivo incidente costituzionale.

La seconda considerazione giudiziale meritevole di segnalazione riguarda la  non vincolatività degli accertamenti della polizia giudiziaria non fondati su una diretta ed incontrovertibile percezione dei sensi: nella specie, la dichiarazione dei militari, secondo cui il veicolo ospitante il trasportato era assicurato, viene ritenuto priva di fede pubblica, siccome fondato su valutazioni approssimative, oltre che superato dalla produzione di documenti attestanti l’intervenuta risoluzione della polizza assicurativa.

La riflessione del giudice foggiano appare ineccepibile, visto che le valutazioni inerenti la stipulazione e l’efficacia di un contratto assicurativo investono questioni di interpretazione giuridica, tutt’altro che assimilabili o riconducibili ai fatti obiettivi che il pubblico ufficiale può attestare con forza fidefacente. In buona sostanza, la polizia giudiziaria può certificare con fede pubblica se sull’automobile v’è il contrassegno obbligatorio per legge, ma non certo sull’efficacia della polizza assicurativa che ne sta alla base.

La terza statuizione di particolare rilevanza concerne, infine, il regolamento delle spese processuali, con il quale il giudice foggiano ha sanzionato sia l’attrice, responsabile per aver proposto una domanda risarcitoria per l’importo di € 259.910,00, a fronte di un danno accertato per la sola somma di € 15.285,94, sia la convenuta, colpevole per non aver accettato, senza giusti motivi, la proposta transattiva formulata, ex art. 185 -bis c.p.c., dal giudice successivamente al deposito della C.T.U., poi rivelatasi coincidente con la sentenza.

Così, la convenuta è stata condannata al rimborso, in favore dell’attrice, delle spese processuali, ma i compensi d’avvocato per le prime tre fasi del processo (studio, introduttiva, trattazione/istruttoria) sono state liquidate in misura pari alla metà dei valori medi del parametro di riferimento, mentre quelli per la fase decisoria sono stati stimati nella misura massima.

Questa deliberazione appare coerente con il recente orientamento in tema di mancata accettazione della proposta ex  art. 185 bis  che avrebbe altresì potuto irrogare la diversa, e forse più afflittiva, sanzione ex art. 96 c. 3 c.p.c.

Autore: Sara Soresi 23 ott, 2018
La separazione  o il divorzio  è stato lungo e doloroso. Hai dovuto rivolgerti ad un legale, presentarti più volte davanti al Giudice, litigare duramente con il/la tuo/tua ex, ma, finalmente, ti è stato riconosciuto il diritto all’ assegno  di mantenimento. Oppure, la separazione o il divorzio sono stati consensuali, quindi piuttosto rapidi. Con il tuo ex, in Tribunale, avete stabilito che hai diritto all’assegno di mantenimento. O, ancora, non vi siete dovuti presentare davanti al Tribunale ma, semplicemente, avete deciso di accordarvi attraverso una scrittura privata , nella quale è stato stabilito il tuo diritto all’assegno di mantenimento. Tuttavia, è da qualche tempo che il tuo ex non provvede al versamento dell’assegno di mantenimento. Ti chiedi: come posso agire? E’ possibile recuperare gli arretrati, cioè le somme che in questi mesi non ho ricevuto? Qual è la strada più veloce? Questa breve guida pratica, potrà aiutarti a capire quali sono i tuoi diritti e gli strumenti che la legge prevede per la tua tutela.
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